NODI BAROCCHI

giovedì 7 marzo 2019
Palazzo Chigi Saracini, ore 21

LES ESQUISSES
Gabriele Natilla | tiorba, chitarra barocca
Hortense Beaucour | violoncello piccolo

Corde pizzicate, corde sfregate, corde di budello che legano il cuore dell’ascoltatore intrappolato fra i nodi delle passioni barocche. Questa è la storia di due strumenti e di una serie di viaggi di andata e ritorno dal sud al nord dell’Europa: percorsi che le musiche hanno compiuto portando con sé un modo di ritrarre le passioni e stregare l’ascoltatore, trascinandolo in un abisso sentimentale. È una storia di tradimenti, seduzioni, sfide e trasformazioni.
Gli affetti musicali nascono in realtà sul palco del teatro, in Italia, dove all’inizio del Seicento stava avvenendo la rivoluzione che avrebbe trasformato gli attori-cantanti in corpi vibranti, sensuali, presenti allo spettatore: figure capaci di vivere sulla loro carne umana ciò che fino ad allora era rimasto confinato nel regno dell’astrazione poetica. Le passioni scendevano sulla terra, si impossessavano dei musicanti e si esprimevano in suoni attraverso gli accenti del loro cuore. Il ritmo del corpo imparava liberamente a giocare con le solide architetture di tempo che costruiscono la musica. E non appena i musicisti italiani con il loro repertorio lasciarono Venezia, Roma, Napoli, Bologna alla conquista delle corti europee e dei colti salotti nobiliari, anche le passioni acquisirono altri accenti, nuove intonazioni e forme di rappresentazione.
Mentre in Inghilterra Henry Purcell farà cantare le sue eroine su bassi ostinati reminiscenti dei ritmi di danza provenienti dal Mediterraneo, in Francia arriveranno chitarristi italiani che cominceranno a confrontarsi con la grande tradizione del liuto. Uno di loro, Francesco Corbetta, raggiungerà l’anticamera della stanza da letto del Re Sole che, ritiratosi dalle faccende politiche quotidiane, dedicava le ultime ore di veglia alle corde da pizzicare. Il corpo del monarca assoluto, corpo dello Stato, giunto alle propaggini dell’oscurità offese dal lume di candela, ritornava corpo sensibile, deciso a farsi cullare dai suoni della chitarra e della tiorba, fino ad arrendersi alla notte.

Nel frattempo i nuovi strumenti da pizzicare avevano conquistato il privato delle persone più agiate, introducendo nel mondo aristocratico le ombre affascinanti dell’universo popolare, come i dipinti che dalle pareti lasciavano che si affacciassero mendicanti sdentati, nani, giocatori notturni, e tavoli traboccanti di ortaggi, frutta e selvaggina avviata alla decomposizione. Le donne istruite potevano cantare accompagnando con la chitarra melodie intriganti dalle origini esotiche: le coste dell’Africa dove si mercanteggiava la vita degli schiavi; quelle dell’India con i suoi profumi intensi; quelle dell’America dove vivevano indigeni più prossimi allo stato di Natura di noi Europei, e quindi semplicemente in grado di provare le passioni nel modo più genuino e giusto.
Sulla traccia di quelle melodie le dame dei salotti parigini attorniate da aitanti cicisbei avevano cominciato a intonare i versi allegorici dei portraits: ritratti non di rado satirici, che partivano dalla descrizione delle caratteristiche fisiche, passavano per le qualità dell’ingegno, si soffermavano sulle attitudini sentimentali e terminavano con un giudizio sulle qualità morali del destinatario di tale creatività.
Forse per reazione all’orrore delle guerre devastanti e al dolore delle lotte religiose che avevano dilaniato la società francese, in questi salotti la vita reale e la finzione letteraria si confondevano totalmente, l’una trasparente all’altra, non così diversamente da quel che oggi capita con l’immagine di sé nei social network più pervasivi. In questa giostra dell’adolescenza protratta fino all’estenuazione, M.lle Madeleine de Scudery si ergeva fra i suoi compagni di gioco con il nome di “Saffo”, vergine divina dei salotti aristocratici parigini. Usava scrivere di sé: «molti rubini incorniciano il mio volto, sto per compiere quarant’anni, ho fatto buon uso di tutti i peccati nella mia giovinezza, ma ora dò consigli alle giovani graziose. Sono una signora!»
M.lle de Scudery aveva creato una mappa su cui delineare i passi dell’amante verso il cuore dell’amata: la sua Carte de Tendre era un vero e proprio trattato di anatomia dell’amore cortese ritrovato, fatto di compiacenza, sottomissione, tenerezza, sensibilità e obbedienza. Tutte attitudini virtuose pubblicamente imposte agli amanti, e immediatamente violate nell’intimità privata dove quasi nessuno, tranne forse i più fedeli e raffinati intellettuali, perdeva mai occasione di introdursi nei letti altrui.

Il gioco delle rappresentazioni sotto le fattezze letterarie di pastori arcadici, iniziato proprio grazie a una nobildonna di origini italiane – M.me Catherine de Rambouillet – passò di moda poco dopo la metà del secolo. Ma quella spinta erotica, satirica e sentimentale, sarebbe riemersa nei ritratti che qualche decennio dopo avrebbero conquistato tutta la produzione musicale francese per gli strumenti che stavano sostituendo il liuto nelle pratiche cortesi: il clavicembalo e la viola da gamba.
I piéces de caractéres perdono i nomi delle danze che scandivano le suites, e cominciano a rivolgersi a persone, avvenimenti, relazioni, attraverso titoli che riferiscono di qualità sentimentali. Non si rivolgono necessariamente a qualcuno di preciso, ma spesso propongono un tipo a cui qualcuno della cerchia di amici può essere reputato più o meno aderente. C’è chi pensa all’obiettivo e scrive il pezzo, come Jean Philippe Rameau. Altri come Jean-François Dandrieu rinvengono il riferimento poeticamente dalla forza evocativa della musica che hanno scritto. François Couperin e Antoine Forqueray si fanno i ritratti a vicenda, mentre il primo dei due, “Le Grand”, descrive l’educazione sentimentale del Delfino di Francia nella sequenza delle sue Folies Françaises.
Marin Marais, allievo del tenebroso Monsieur de Sainte Colombe, fa vibrare sulle corde della viola da gamba i ritratti più efficaci, portando l’ambizione di descrivere con i suoni la natura interiore a raggiungere vette difficilmente riconquistate prima del Romanticismo.
In questo mondo dove professionisti e dilettanti molto spesso si confondono e condividono il sapere sulla grammatica e lo stile della composizione musicale al di là di ogni differenza di rango sociale, irrompono i virtuosi di un nuovo strumento proveniente ancora una volta dall’Italia: il violoncello.

Nati come figli abnormi nella famiglia delle viole da braccio, i primi violoncelli sono grandi e pesanti, e si appoggiano al suolo. Molto rapidamente però le loro forme divengono più ridotte e aggraziate, mentre il suono potente ed esteso permette di dialogare con i cantanti a teatro senza bisogno che alcuno strumento armonico li supporti. Il violoncello può imitare la voce tenorile degli eroi, consolare le pene d’amore dei contralti, unirsi al coro degli angeli fra i soprani. Come i castrati, il violoncello può cambiare a piacimento ogni determinazione sessuale, e attraversarle tutte anche in un unico brano, giocando il ruolo del solista e lasciando alle spalle gli altri strumenti del continuo. IL suo ventre sonoro può essere il luogo delle meditazioni più profonde e delle espressioni sentimentali più dirompenti.
Dopo un periodo di “normalizzazione” fra Venezia e Bologna, dove il violoncello raggiunge una sua identità, è a Napoli che a cavallo del Settecento nasce una scuola che alleverà fra i poveri studenti dei conservatori i virtuosi ineguagliabili dell’epoca. Il più grande di tutti è Francesco Alborea, detto “Francischiello”: colui che rappresenterà per almeno mezzo secolo il caposcuola vero o millantato di tutti i maestri violoncellisti sparsi per le corti europee.
Ma c’è anche Salvatore Lanzetti, che nel 1736 sceglie di dirigersi verso Parigi per conquistarla. E la capitale francese lo accoglie subito sulla scena dei Concerts Spirituels: per due anni Lanzetti prova a imporre il suo gusto e il suo linguaggio nel paese dove ancora domina la viola da gamba. Ma alla fine decide di virare verso Londra, più desiderosa di applaudire artisti italiani rispetto a una Parigi che si stava sempre più ri-francesizzando. In quegli stessi anni, Jean Barriére, che attratto dalla nuova potenza espressiva aveva lasciato la viola da gamba per il più moderno violoncello, si dirige verso Roma per incontrare i maestri italiani e riportare in patria uno stile unico all’insegna di quei Goûts réunis attorno alle Alpi professati da Couperin. Ma al suo ritorno Barriére troverà una scuola violoncellistica nazionale guidata da Martin Berteau, con un insegnamento che si protrarrà negli anni a venire spingendo verso l’oblio la stravaganza degli italiani, dimenticata e tornata al suono solo alla fine del Novecento.

La storia di chitarra e tiorba da una parte, e quella del violoncello dall’altra, mostrano in filigrana la trasformazione del modo di sentire e manifestare le passioni attraverso due secoli fra Italia e Francia. Les Esquisses è un ensemble formato proprio da un italiano, Gabriele Natilla – eccellente e poliedrico chitarrista, padrone del repertorio classico e contemporaneo, ma con una forte attrazione per la prassi e le sonorità più antiche – e una francese, Hortense Beaucour, che ha studiato e indagato il mondo barocco con lo strumento spesso usato anche da Bach.
Lungo un cammino fatto di salti, pause e ritorni fra un’epoca e l’altra, seguendo i passi di una danza fra l’Italia e la Francia, ci lasceremo intrappolare dai nodi barocchi delle passioni: avvincenti, seducenti, e spesso ancora insolubili, nonostante i secoli.

ASCOLTO LIBERO

Gabriele Natilla Ciaccona, da G. Sanz (1640-1710), “Istrucción de música sobre la guitarra española”, Libro II (1675)
Gabriele Natilla Toccata II “Arpeggiata”, da G.G. Kapsberger (1580-1651), “Libro quarto d’intavolatura di chitarrone” (1640); Yamanashi, Japan. Estate 2010
Gabriele Natilla Alfonsina y el mar, Ariel Ramirez, Okayama City Concert Hall (Japan) on December 2nd, 2007
Gabriele Natilla Hommage à Mosca da Silva, Fêtes artistiques pour l’inauguration de l’Oratoire Saint-Maurille, Angérs, Settembre 2018
Les Esquisses (Jeanne Lefort, Hortense Beaucour, Gabriele Natilla) Pourquoy doux rossignol, Jean-Baptiste Drouart de Bousset (1662-1725) da “Livre d’airs sérieux et à boire”(1699).

INGRESSO GRATUITO